A coronamento del centenario della Grande Guerra 1915-1918, il Coro Bajolese presenta questo nuovo Cd che antologizza la memoria cantata di quel tragico conflitto.
Una memoria mai spenta, nonostante il secolo che ci divide dalla guerra intrapresa dal governo italiano per liberare Trento e Trieste e combattuta eroicamente, sebbene di malavoglia, dai nostri nonni.
I 17 brani che compongono il disco, pur nella loro esiguità, offrono un quadro abbastanza completo ed equilibrato dei tanti generi che confluiscono nel canzoniere di guerra, di quella Grande Guerra che come un cataclisma mai visto prima, agì da spartiacque fra antico e moderno, fra società tradizionale e società di massa.
Forse è opportuno, per uso di memoria, rammentare qui, con la nuda concretezza delle cifre, la contabilità di morte di quell'ecatombe, che a livello internazionale costò 8 milioni e mezzo di morti, più di 21 milioni di feriti, quasi 8 milioni di prigionieri e dispersi.
Sul versante italiano, le cifre sono altrettanto spaventose: 650 mila morti, un milione e mezzo di feriti, circa 470 mila mutilati e invalidi di guerra (tragedia, quest'ultima, rievocata nella popolare canzone del Capitano cieco).
Sintetizzando, nel repertorio dei canti di soldati qui esemplificato, abbiamo ballate antiche rammodernate, ossia trasformate nel testo e nella forma linguistica, come La coscritta, Signor capitano e Su su cantate, ossia La guerriera, La sposa morta e La prova (Nigra 17, 48 e 51), canzoni da cantastorie come Addio compagni, Mario Marino, canti risorgimentali come Teco vissi, canti di caserma come Oh macchinista e Ritornano i battaglioni, canzoni popolaresche del tipo patetico-patriottico come Là sui monti del Trentino, canti più decisamente orientati verso la protesta antibellicista, come Montenero e Gorizia, e infine, anche un esempio di canzonetta di successo come Le rose rosse, di E. A. Mario, scritta nel 1919 dal prolifico autore napoletano che l'anno prima aveva composto la celeberrima Leggenda del Piave.
Non mancano le strofette, genere tra i più popolari per la loro flessibilità e adattabilità ai contesti più diversi (si pensi al modulo del Bombacè, usato per le innumerevoli strofe sul General Cadorna o sulla Moglie di Cecco Beppe): in Canti dei coscritti, ne ascoltiamo una colorita sequenza semidialettale, che mescola baldanzosità e lamento, dal paghè da beive ai bun suldà! a L'è mi ch'am tuca!
Mancano solo le parodie (o contrafacta, come le chiamano i filologi), che pure furono molto in uso, come alterazione ironica di canzonette in voga come O surdato 'nnammurato o Ho detto al sole, oppure ribaltamento polemico di canti assurti a inni, come appunto La leggenda del Piave.
Ma la scelta operata da Amerigo Vigliermo, coerentemente con l'operazione svolta in più di 50 anni di ricerca, non va in direzione archeologica, ma intende rappresentare quanto resta oggi vivo nella pratica canora della gente canavesana.
Per questa ragione, si può assumere questa essenziale antologia quasi come test della durata, nella memoria popolare e nell'uso del canto, del ricordo di quell'immane conflitto, che nel secolare percorso, ha perso certo molto delle asprezze e della specificità di riferimento ai luoghi delle battaglie o ai personaggi di quel conflitto, ma in definitiva nulla ha perso delle note salienti e caratterizzanti, che si identificano con i canti del lutto, dello strazio delle famiglie, dell'orrore per il tanto sangue versato, per le innumerevoli giovani vite immolate.
In tal senso, canti come Ho sentito rombare il cannone, Salerolo e Montenero, pur a un secolo di distanza, mantengono intatta la forza scabra e poetica degli autentici canti di trincea.
Un particolare accenno merita Salerolo, l'unico canto eseguito in una lezione non piemontese, ma di area veneta (raccolta da Gabriele Vardanega ai piedi del monte Grappa): un canto che trasforma in poesia l'imponente fenomeno della scrittura epistolare da parte di un esercito di contadini illetterati (solo il 24% dei soldati parlava italiano, mentre gli analfabeti in Italia erano il 40% della popolazione, con un forte divario fra Nord e Sud: 11% in Piemonte, 70% in Calabria).
La corrispondenza negli anni di guerra assommò a quattro milardi di lettere e cartoline postali tra fronte e famiglie, in gran parte scritte con grafia incerta in una lingua (l'italiano popolare) piena di dialettalismi.
Così la letera tuta d'amore scritta in mezzo agli orrori della guerra (il monte Solarolo, cima della catena del Grappa, fu teatro di sanguinosi combattimenti nel novembre del 1917 e nell'ottobre del 1918) poeticamente elenca i pezzi del proprio corpo (i zenoci, il cuore, il palmo della mano, il sangue delle vene, le ossa) che insieme compongono una scrittura incarnata, vibrante messaggio di pace contro il “macello umano” e l'inutile strage.
Così, nella trasformazione delle ballate in canti della guerra '15-18, è significativo osservare come la ragazza, che nel canto antico surrogava l'anziano padre richiamato, e montava a cavallo per la guerra, qui la monta in reoplano e verso il Piave la se ne va, finendo poi con l'invettiva contro quei vigliacchi di quei signori / che alla guerra non vogliono andar.
E anche nelle scanzonate strofette di Oh macchinista, vediamo affiorare le ricorrenti, secolari invettive: E maledetta sia la guerra...e Mai più le armi vogliamo imbracciar!
Per questo, fuori da ogni oleografico celebrativismo, è un bene che si continuino a cantare e a ricordare questi canti.
Non un cantare per evasione (il canta che ti passa! tanto sbandierato dalla propaganda bellicista), ma piuttosto un cantare per riflettere: ci ragiono e canto.
Perché la memoria di quei canti, accanto alle tante altre iniziative create in occasione del centenario, deve servire a riaffermare il valore imperituro della pace e della solidarietà fra i popoli. |